Il ragazzo che voleva tutto e subito: la delusione delle federazioni sportive e degli italiani per l’esclusione di Alex Schwazer dai Giochi Olimpici di Londra 2012 a séguito del ritrovamento nel suo sangue di sostanze dopanti
L’ambizione dell’essere umano, se non viene sorretta da spirito di autocritica e di umiltà, può divenire “arrivismo a tutti i costi” e creare danni gravissimi per se stessi e per la società in cui si vive. Prendiamo atto con rammarico che Alex Schwazer ne è una dimostrazione: il comportamento contrario all’etica sportiva – l’uso di epo, rinvenuto in un test anti doping – adottato in occasione dei Giochi olimpici di Londra 2012 gli è valso l’esclusione immediata dalla competizione, a opera del presidente del Coni, Gianni Petrucci.
Un Coni che non ammette errori, come esplicitato dalle parole di Petrucci: «È una pagina dello sport italiano che non avrei mai voluto vivere. È una notizia che ha ferito tutti. […] Ho sempre detto che è meglio avere qualche medaglia in meno ma più pulizia. E non voglio fare la morale a nessuno, toccherà all’atleta farsi un esame di coscienza. Posso solo augurarmi che tutte le federazioni del mondo seguano il nostro esempio». E per Schwazer le sanzioni potrebbero non finire qui: il Comando generale dei Carabinieri – presso cui l’atleta svolge servizio – sta infatti valutando l’adozione di conseguenti provvedimenti disciplinari a suo carico. Convincimento di essere più forte degli altri e smania di arrivare sul podio a ogni costo: due componenti che hanno violentemente invaso la sua mente fino al punto da fargli perdere di vista la più importante delle regole del gioco, l’etica sportiva. Il motivo della sua esclusione dai Giochi Olimpici ci fa porre, dunque, la più semplice delle domande: perché?
Già campione della “50 km” a Pechino 2008; svariate onorificenze ricevute, tra gli altri, dal presidente della Repubblica; un fisico giovane e piuttosto allenato, grazie al quale avrebbe potuto vincere senza inganni. Una carriera promettente, una vita apparentemente brillante e agiata, complice anche uno spot pubblicitario dei giorni nostri ma che potrebbe non essere più mandato in onda. Una realtà infranta a soli 27 anni, per un atto deliberatamente scorretto nei confronti degli atleti onesti contro cui avrebbe dovuto gareggiare. Un gesto altrettanto deliberatamente voluto quanto temuto. Ci chiediamo come Schwazer abbia potuto pensare – da atleta serio ed esperto conoscitore delle regole sportive – di sfuggire a controlli clinici che avrebbero rivelato, nella loro interezza, le sostanze contenute nel suo sangue.
Ci domandiamo inoltre come questa ambizione, degenerata sotto gli occhi di tutti, abbia potuto vincere sulla reputazione che l’atleta ha del proprio paese, che a Londra avrebbe dovuto rappresentare; e ancora, come Schwazer non abbia pensato che un comportamento così grave per l’etica sportiva non avrebbe avuto conseguenze anche per la sua compagna di vita, Caroline Kostner, indiscussa campionessa del pattinaggio artistico mondiale. La quale Kostner si è appena cancellata dal Grand Prix 2012, cui avrebbe dovuto partecipare in autunno, senza mancare ininterrottamente dal 2006: una decisione, la sua, da collegarsi probabilmente al default di Schwazer, dal momento che appena lo scorso 12 luglio aveva affermato pubblicamente di voler proseguire la propria carriera sportiva fino al 2014.
L’immediata ammissione, da parte dell’atleta, di ogni colpa relativa all’accaduto è arrivata quasi simultaneamente alla notizia choc: «Ho sbagliato, la mia carriera è finita qui. […] Ho fatto tutto da solo e di testa mia e dunque mi assumo tutte le responsabilità per quello che è successo». Sono parole che, da un lato, offrono – perlomeno agli ottimisti e a chi crede nella gioventù odierna – un barlume di speranza: quella che una circostanza negativa come questa possa gettare il seme per il germoglio più importante dell’uomo, la maturazione dell’animo umano. Dall’altro lato però appaiono nella loro crudezza, se si torna indietro con la memoria a Pechino 2008, sul cui podio Schwazer aveva affermato, con il tricolore sulle spalle: «Ho vinto perché me lo merito, in queste condizioni non mi batte nemmeno Superman. Io sono uno che non imbroglia».
L’avvenimento, per il protagonista, sta progressivamente assumendo le sembianze di una tragedia umana oltre che professionale: il padre dell’atleta è intervenuto sulla vicenda incolpandosi per non aver saputo ascoltare il figlio: «La colpa è mia. Nei momenti difficili serve un padre che riesca a stare vicino ad un figlio. Per questo chiedo perdono ad Alex. Tireremo avanti». Noi, dal canto nostro, condividiamo le parole pronunciate dal presidente della Federazione italiana di atletica leggera, l’ex campione Franco Arese, sul grave atto commesso da Schwazer: «Mi dispiace dal punto di vista umano […] vorrei incontralo e fare quattro chiacchiere con Alex. Mi piacerebbe capire le motivazioni. Va punito ma è anche una persona e nella vita si può sbagliare. […] Gli auguro che si riprenda come uomo». L’intervista che l’atleta ha rilasciato in questi giorni fa supporre che abbia un gran bisogno di ritrovare la propria serenità interiore. Se così realmente fosse, sarebbe una dimostrazione che anche un’esperienza negativa può offrire un grande insegnamento di vita.
Emanuela Susmel
(LucidaMente, anno VII, n. 80, agosto 2012)
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